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Smart city: cos’è, come funziona, caratteristiche ed esempi
Nella smart city, le tecnologie sono usate per rendere la città più efficiente, sicura e sostenibile e per migliorare la qualità della vita dei cittadini
Parlare oggi di Smart Cities non è facile. Perché è un termine inflazionato, senza una connotazione precisa. Perché ancora non esiste una vera Smart City cui fare rifermento. Nel migliore dei casi, abbiamo sperimentazioni su aree territoriali ridotte e difficilmente replicabili.
Manca purtroppo una cultura politica e imprenditoriale che sia realmente indirizzata alla creazione di valore condiviso per la comunità: è ancora difficile avvicinare il mondo delle aziende ai cittadini e alle istituzioni, non esistono standard comuni, la legislazione risulta farraginosa e carente, lo sviluppo tecnologico viene indirizzato verso il profitto immediato e non verso obiettivi di sviluppo sostenibile e sostenibilità ambientale.
Le nostre città sono tutt’altro che perfette (e alle volte io stesso mi chiedo: “se la mia città non è smart, allora è stupida?” – “qual è il significato di smart?” – “esiste un aut aut al concetto di smartness?”). Ma se ci fermiamo alla definizione secondo cui “smart” è una città che crea uno “sviluppo economico sostenibile” o che genera “uno standard di vita elevato”, allora possiamo dire che anche la Firenze dei Medici o la Parigi di Haussmann erano a loro modo città smart. A mio modo modesto parere, dovremo puntare più in alto: smart è una città sostenibile, efficiente e innovativa, una città che assicura un’elevata qualità di vita per i cittadini, riuscendo al contempo a soddisfare le esigenze di istituzioni e imprese anche grazie alla realizzazione di progetti integrati e connessi che spaziano dall’innovazione tecnologica all’efficienza energetica, dalla mobilità all’ambiente, dalla comunicazione alla sensoristica diffusa.
Sono questi i motivi per cui le grandi aziende ICT hanno per prime identificato un legame possibile fra soluzioni tecnologiche e riorganizzazione delle città. La necessità di soluzioni intelligenti a problemi concreti ha creato specifiche nicchie di mercato che i grandi attori del settore hanno prontamente occupato. La “città del futuro” tecnologicamente avanzata è diventato presto uno strumento di marketing molto efficace e potenzialmente remunerativo. Secondo questa logica, la governance locale avrebbe dovuto acquistare, implementare e gestire l’intero sistema attraverso un classico approccio centralizzato.
I rischi di un approccio top down di questo tipo sono evidenti: da un lato le aziende del settore potrebbero monopolizzare l’infrastruttura hardware e software per garantire introiti a tempo potenzialmente illimitato (per la fornitura di componenti, parti di ricambio ed assistenza, ecc.); dall’altro gli Amministratori potrebbero utilizzare questi strumenti per accrescere il loro potere di accentramento e controllo. Per non parlare del fatto che i dati estratti dal sistema potrebbero essere trasformati in risorsa commerciale a vantaggio delle aziende coinvolte.
In realtà i progetti di Smart City si sono fermati molto prima di arrivare a evidenziare queste problematiche. Ad esempio, la mia esperienza in ambito italiano mi ha fatto capire che nel nostro paese gli ostacoli più grandi per l’avvio di un progetto come questo sono essenzialmente due:
Riguardo al primo punto è chiaro che il nostro Paese sconta una arretratezza digitale elevata (sia per mezzi che per contenuti), soprattutto nel settore pubblico. A questo si aggiunge un ricambio generazionale che stenta ad arrivare e che potrebbe perlomeno aumentare la consapevolezza degli strumenti disponibili.
Riguardo al secondo punto c’è poco da dire e non credo sia il caso di addentrarsi in speculazioni sull’attuale situazione economica e infrastrutturale del Paese.
Oltrepassando i confini nazionali, la crisi economica, le problematiche ambientali, la diffusione di infrastrutture di comunicazione e dispositivi interconnessi a basso prezzo, la limitata possibilità di coinvolgere i cittadini – solo per citare alcuni dei principali fattori – hanno reso il modello top down iniziale ormai obsoleto ed economicamente poco sostenibile. I progetti cresciuti sotto questa ideologia sono miseramente falliti: pensiamo al progetto PlanIT, un esempio di smart city a pochi chilometri da Porto, che “grazie a 100 milioni di sensori posizionati in aree strategiche dell’insediamento urbano, in superficie e nel sottosuolo, può garantire un livello di efficienza energetica di qualità unico nel suo genere”, oppure la città del futuro Masdar City, negli Emirati Arabi, che avrebbe dovuto consumare “la metà dell’energia di una città di uguali dimensioni, generandola on site da solare, e poi disporre di un sistema di trasporti driverless su binari magnetici, case con tetti apribili in base alla stagione e un proprio sistema di desalinizzazione e riciclo dell’acqua” (i virgolettati sono citazioni prese dai siti internet dei costruttori).
Nessuno di questi progetti è mai stato concluso.
Osservando con attenzione i proclami commerciali (e politici) riguardanti le Smart Cities è facile accorgersi che il “cittadino” è il grande assente, il Godot del nostro tempo. Probabilmente i grandi progetti citati sopra sono progetti rimasti sulla carta per la mancanza di attenzione versi i cittadini, per aver pensato ai sensori piuttosto che alle persone, alle politiche tecnologiche e commerciali piuttosto che a quelle urbane e inclusive.
E allora la cura potrebbe essere quella di “partire dal basso”?
Questo approccio, chiamato bottom up, fa parte di un ripensamento a livello globale dell’approccio alle tematiche smart e presuppone che esistano individui in grado di saper usare le tecnologie oltre che a interagire con le stesse quanto con il governo della città. Ma può risultare efficace solo se c’è la volontà da parte della comunità locale di essere coinvolta nel processo di sviluppo della smart city e se le persone coinvolte risultano realmente in grado di percepire i problemi dei luoghi in cui vivono e di proporre ed elaborare soluzioni adeguate. Una delle maggiori criticità incontrate nelle iniziative bottom-up è legata alla limitata consapevolezza dei cittadini, che si traduce nello scarso grado di interesse e partecipazione ai progetti. E visto che stiamo parlando di progetti legati a innovazioni tecnologiche, l’enorme arretratezza sistemica e culturale in campo digitale di certo non gioca a nostro favore.
In economia si chiama “trappola della liquidità” il paradosso secondo cui se il tasso di interesse cresce, i consumatori sono sicuramente scoraggiati all’indebitamento (comprare una casa a rate con interessi del 10% è sicuramente diverso che comprarla con interessi al 2%) e questo si ripercuote in un calo generalizzato della domanda. Ma se il tasso diminuisce, non c’è certezza che la domanda globale aumenti.
Questa asimmetria è particolarmente evidente oggi, visto che Draghi ha rotto recentemente il tabù di tassi di interesse negativi.
La stessa cosa sta succedendo per le tecnologie digitali. Se non ci sono tecnologie abilitanti o open data, sicuramente i cittadini non possono contribuire all’azione di governo attraverso una “smart citizen”.
Ma non è detto che, anche qualora venissero creati i presupposti per un coinvolgimento degli stessi, i cittadini decidano di contribuire. Approcci similari, in altri campi (penso ad esempio ai gruppi di acquisto solidale, agli orti urbani, ai sewing café, agli hackerspace) non sempre sono risultati vincenti.
A questo punto credo che il lettore possa essere portato a chiedersi: “e allora non ti va bene niente?”.
In effetti sono un perfezionista e come tale sono spesso insoddisfatto da quello che vedo attorno a me.
Ma questo non toglie il fatto che a oggi non esiste una formula univoca che possa creare la perfetta Smart City – e probabilmente la risposta sta in una via di mezzo fra un governo centrale capace di rispondere in maniera efficace alle richieste dei cittadini e da persone che sono disposte a mettersi in gioco per migliorare la propria città.
A mio modesto parere le Smart Cities potranno prendere forma solo attraverso scelte politiche e di investimento di lungo periodo, che però saranno rese particolarmente complesse dall’incertezza e dall’asimmetria informativa caratteristiche dei contesti in cui tecnologia ed innovazione giocano un ruolo di primo piano.
In Italia in queste scelte gioca un ruolo fondamentale l’AgID (l’agenzia per l’Italia digitale), che però risponde direttamente alla Presidenza del Consiglio dei Ministri e che quindi potrebbe soffrire di una valorizzazione limitata nel rapporto con le realtà locali e una distanza ancora più difficile da colmare rispetto alla partecipazione diretta dei cittadini. Inoltre, il suo inquadramento rende necessario uno stretto ed efficace coordinamento non solo con gli altri livelli di governo presenti sul territorio, ma anche di uno stabile raccordo tra le varie Agende (Agenda digitale, Agenda urbana, Agenda per la semplificazione, ecc.) che rischiano di sovrapporsi.
Per quanto riguarda l’illuminazione, nel mio lavoro sono sempre stato ispirato dalle intuizioni di Roger Narboni, uno dei più grandi lighting designer viventi. Quello che va ripetendo da anni è che la “luce” non può essere fatta solo dalla tecnica, ma anche dalle persone che la vivono e la utilizzano.
Se il concetto di smart lighting (illuminazione intelligente) è quello di avere delle luci che ci dicono se sono rotte oppure no, o delle luci che si accendono se passa un’automobile o qualche pedone e poi si spengono – ecco – credo che stiamo mancando l’obiettivo (a meno che non vogliamo credere che l’azione di una fotocellula sia un sistema avanzato di coinvolgimento dei cittadini).
Oggi abbiamo a disposizione apparecchi di illuminazione a LED che possono modulare accensione e intensità istantaneamente, sistemi di comunicazione maturi per un’applicazione ad ampio raggio, sensoristica avanzata. Non deve essere però confusa la soluzione tecnologica con lo scopo: non basta infatti avere un sistema “intelligente”, occorre capire come sfruttare questa possibilità al meglio.
Anche per l’illuminazione occorre un cambio di paradigma. L’illuminazione non deve nascere solo da una pianificazione centralizzata, ma deve saper coinvolgere in maniera attiva i cittadini nel suo sviluppo. Un primo passo potrebbe essere quello di utilizzare i dati derivanti dal territorio o forniti dalle persone stesse per indirizzare la progettazione verso soluzioni realmente efficaci e utili.
Il passo successivo è quello di inserire il sistema di illuminazione all’interno di una visione più ampia di Governance, grazie a una rete aperta di interscambio dati già presente e diffusa su tutto il territorio.
Una volta era l’impianto di illuminazione che creava la propria rete di comunicazione (per parlare in genere solo con sé stesso); oggi invece occorre pensare a un sistema di illuminazione che si collega a una rete esterna già esistente e che sorregge anche altri servizi – come succede oggi per le periferiche plug&play con il wi-fi di casa.
In questo modo sarà possibile pensare all’illuminazione pubblica come parte di un ecosistema completo, capace di rispondere alle esigenze dei cittadini anche (e soprattutto) perché in grado di comunicare con gli altri sistemi e piattaforme presenti sul territorio.
Vi ricordo però che sono un perfezionista insoddisfatto: oggi – purtroppo – un sistema del genere ancora non esiste.
“Da oltre 10 anni mi occupo di progettazione della luce e dal 2013 sono a capo dell’ufficio Ingegneria e Innovazione di Hera Luce. Il mio ufficio realizza impianti di illuminazione urbana e architetturale e sviluppa infrastrutture smart per le città. Di pari passo mi sono dedicato ad attività di ricerca in collaborazione con diverse Università italiane e di consulenza nel mondo della luce. Partecipo a diversi tavoli normativi legati all’illuminazione, come il Gruppo di Lavoro UNI per la definizione dello standard UNIxml per gli apparecchi di illuminazione ed il Gruppo di Lavoro per l’aggiornamento dei Criteri Ambientali Minimi per l’illuminazione pubblica sviluppati dal Ministero dell’Ambiente”