Un pubblico servizio può essere oggetto di privatizzazione sia in senso formale, attraverso la trasformazione del veicolo destinato a erogarlo nel tipo di società commerciale, propria delle attività privatistiche e non, invece, dell’agire statuale, sia in senso sostanziale, affidando la proprietà, o almeno il controllo maggioritario o parasociale di tali veicoli societarizzati al capitale privato. A sua volta, la privatizzazione sostanziale può essere integrale o parziale, a seconda che venga trasferito l’intero o solo una quota del capitale sociale.
È il caso delle società miste, largamente utilizzate proprio nel campo dei servizi pubblici per favorire l’attrazione di risorse e competenze intorno ai progetti di interesse generale. La società mista rappresenta una elaborazione in vitro del modello societario, tali e tante sono le deviazioni dall’archetipo della società commerciale cui pure si ispira. La natura della società commerciale è il fine lucrativo, la persecuzione del profitto. Questo, a sua volta, è la leva che consente e legittima il coinvolgimento del privato, che solo in vista di un ritorno sui propri investimenti può avere interesse a farsi coinvolgere in simili situazioni.
Società miste e conflitto di interessi
Queste deviazioni si traducono in un palese conflitto di interessi, ad altissima intensità: il socio pubblico veste contemporaneamente i panni del socio (maggioritario), dell’ente affidante e del regolatore; ad esso compete l’amministrazione del territorio in cui si esplica l’attività di servizio, e per questo gli incombe favorirne allo stesso tempo lo sviluppo economico (dar da lavorare ad imprese e cittadini radicati nell’area) e sociale (favorire l’inclusione, rendere accessibili i servizi a tutta la popolazione), migliorando le infrastrutture e, ai tempi d’oggi, ricercando la sostenibilità – sociale, ambientale, economica – del servizio o dell’attività.
Ci vuol poco a vedere come queste forze vadano facilmente in contrasto fra loro, e più o meno tutte con l’idea lucrativa alla base del vincolo societario: favorire le imprese del territorio può andare a discapito dell’efficienza gestionale, includere nel servizio i meno abbienti si scontra con la difesa della qualità del credito commerciale, e così via. Quando si arriva alla quotazione in borsa, come nel caso delle maggiori utilities nazionali, di parte del capitale, coinvolgendo così quel risparmio privato che beneficia persino di tutela costituzionale (art. 47), il paradosso emerge in tutta la sua plasticità.
L’evoluzione darwiniana del modello societario rappresentato dalla società mista sembra via via somigliare alla creatura di Frankenstein sfuggita dal laboratorio, che non al perfezionamento della versione-base. Tanto più vero ove si registri l’effetto, denunciato all’inizio, dello spavento che questo modello determina tra i cittadini.
PPP e privatizzazione: due concetti differenti
Il tutto per non aver evidentemente compreso, o voluto attuare, il disegno del partenariato pubblico privato (PPP), anche nella sua forma istituzionale (cioè societarizzata, PPP-I) come disegnato dal legislatore eurounitario: per il quale, tanto per iniziare, PPP non significa affatto, se non al limite in senso formale – privatizzazione della gestione dei SS.PP.LL.
Ci si deve qui capire su alcuni concetti, che – pur nella loro apparente univocità – trovano poi applicazioni affatto differenti a seconda dei contesti e degli autori. Da un punto di vista “storico” la L. 142/1990 ha introdotto la possibilità che le aziende speciali o municipalizzate costituite per la gestione di servizi pubblici locali evolvessero in società miste “qualora si renda opportuno in relazione alla natura del servizio da erogare, la partecipazione di altri soggetti pubblici o privati” (articolo 22 comma 3 lettera e). Veniva previsto che queste società potessero oltre che gestire servizi pubblici, realizzare infrastrutture e altre opere di interesse pubblico.
In un diverso ambito (Cfr. la Comunicazione interpretativa della Commissione sull’applicazione del diritto comunitario degli appalti pubblici e delle concessioni ai partenariati pubblico-privati istituzionalizzati (PPPI), C(2007)6661), si percepisce una effettiva distinzione, per quanto implicita, tra veicoli societari di incorporazione di un partenariato pubblico-privato in forma istituzionalizzata (PPP-I) e società miste che sono, invece, tali solo per la presenza, al loro interno, di capitali privati. Mentre entrambi possono avere, e spesso hanno, la medesima veste societaria (privatizzazione formale), solo alle seconde è riconosciuto il rango di entità (parzialmente) privatizzate dal punto di vista sostanziale.
Partenariato pubblico privato: uno strumento da privilegiare
È esplicito il Libro Verde relativo ai PPP e al diritto comunitario degli appalti e delle concessioni, 30 aprile 2004, COM(2004) 327): “La ratio dell’istituto va rinvenuta nella difficoltà dell’amministrazione di reperire risorse necessarie ad assicurare la fornitura di un’opera o di un servizio alla collettività […] L’acquisizione del patrimonio cognitivo, composto di conoscenze tecniche e scientifiche, maturato dal privato nelle singole aree strategiche di affari, costituisce un arricchimento del know-how pubblico, oltre che un possibile alleggerimento degli oneri economico-finanziari […] Sia la Commissione che il Parlamento Europeo concordano nel ritenere che le forme di PPP non costituiscono “l’anticamera” di un processo di privatizzazione delle funzioni pubbliche”.
Per questo motivo l’assemblea di Strasburgo ha qualificato, senza mezzi termini, il PPP, in tutte le sue manifestazioni, come “un possibile strumento di organizzazione e gestione delle funzioni pubbliche”.
Si vede, dunque, che lo spazio per il PPP, più o meno istituzionalizzato, è ampio e fecondo, nelle intenzioni del diritto unionale. Rappresenta forse un compromesso – come è giusto che sia, e dovremmo riappropriarci dell’idea che la Politica realizzi dei compromessi per raggiungere gli obiettivi di interesse generale gestendo le compatibilità – tra le contrapposte istanze, ma le compone, lasciando liberi i ruoli e legittimi gli interessi. Prevedendo, persino, quella funzione di controllo che troppe volte manca, nell’approccio italico alle pubbliche funzioni, dove il procedimento è regolato sino al micro-management dei dettagli, e il controllo di risultato manca più o meno del tutto (come dichiarato anche in questi giorni dal Ministro Cingolani e riportato da un’ANSA del 17 marzo, avrebbe detto testualmente “Si fanno carte perfette e poi non si controlla funzionamento“).
Il PPP può, dunque, costituire la via privilegiata – e da privilegiare – per il raggiungimento di quegli obiettivi di rinnovamento e rilancio del sistema-Paese, messo in ginocchio dagli effetti della pandemia dopo anni di agonia silenziosa, dando il via libera a servizi intelligenti e sostenibili, smart cities, gestione inclusiva e solidale della cosa pubblica.